Amore è Cinema: “Before Sunset” di Richard Linklater
Before Sunset è film sul cinema che dice che Cinema è la vita fatta film. È la vita, mai completamente immanente, resa fissa con uno strumento che lavora esclusivamente per giochi di prestigio.
«In a sense, “Before Sunset” is a movie about how we create selves just by talking. But it’s also, as Jesse suggests at one point, about how we become prisoners of time. […] The years have had their way with them. But suggests Linklater – much like love – the movies have a way of defeating time.»
After nine years, did their hearts grow fonder?, Manohla Dargis
Sempre per l’esame di Critica cinematografica, ci è stato richiesto di fare una ricerca sulla ricezione critica di un film a scelta. Uno qualsiasi, senza limitazioni di anno, genere, lingua, forma, contenuto, plauso eccetera. E quindi io, da brava persona senza un contegno, ho pensato, ma perché no. Facciamola su di Lui. Su Quel Film per cui sbatterei gioiosamente l’occhio destro e pure quello sinistro su uno spigolo. Facciamola su Before Sunset. In pratica quindi non si trattava di una ricerca, ma di un progetto di passione – che non è mai una cosa esattamente buona da fare quando si deve approcciare un argomento in maniera analitica, con buona pace della buonanima dei giovani turchi dei «Cahiers». Perché se pure è vero che il grado estremo della cinefilia è quello della passione vorace, dell’amore sordo e cieco, dello scombussolamento estatico e sublime dei sensi davanti a qualcosa che lascia senza parole e che riduce a delle tristi figure di pazzi che si divertono a stare ore e ore tappati dentro una sala buia a guardare delle immagini in movimento, è anche vero che la smania serve a poco quando poi invece si devono togliere gli occhiali dell’amore e guardare al film-mio-tessssoro come solo a un film. E per analizzarlo, per capirlo, per smontarlo e indagarlo e ricomporlo (anche uscendone con il proprio amore accresciuto!), serve essere lucidi. Attenti. Oggettivi. Critici.
“Ma Truffaut—!” “Critici.”
“Critico”, però, proprio come mi ha insegnato suddetto esame di Critica, è una parola che non vuol dire assolutamente nulla, e quindi dibattevo nella mia testa se fare o non fare la ricerca su Before Sunset. Mi chiedo ma magari poi sono approssimativa, magari non sono completa, magari ignoro i punti di debolezza, magari al contrario ho paura di ignorarli e li ingigantisco anche se credo non ce ne siano, magari magari magari, essere o non essere questo è il dilemma, se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d’oltraggiosa fortuna (scegliere un film che mi piace meno, dove avrei però però un terreno più sicuro) o prender armi contro un mare d’affanni e, opponendosi, por loro fine (affrontare Linklater a testa alta) eccetera. Ecco però che un bel giorno a lezione proprio la mia professoressa decide di proiettare un corto che avevamo già visto io, lei e pochi altri mangiatori d’oppio linklateriano, davanti a un’intera aula di circa-ventenni ancora addormentati alle 9:30 di mattina. Il suo ben poco controllato commento alla fine della brevissima visione è stato “A parte che ora potrei piangere per 10 minuti ma cercherò di avere un contegno”, e intanto io – occhi fuori dalle orbite, mani nei capelli e il credo mai sopito che Dio sta nei dettagli in testa – ho deciso che sì, okay, fa niente tutto, avete vinto voi, faremo questa benedetta ricezione critica su Before Sunset, il film del 2004 di Richard Linklater con Ethan Hawke e Julie Delpy, e partiremo proprio da questo video essay qui: Linklater // On Cinema and Time di kogonada.
(Questa ricerca nasce come un saggio – da cui le note a piè di pagina – che è diventato una presentazione che è diventato un discorso di 5 minuti e qualche secondo in più. Qui restituisco la rielaborazione complessiva del lavoro sulla base di quello che ho portato all’esame.)
«If cinema is also the art of time passing, then Linklater is proving to be one of its most actively engaged and thoughtful directors. Unlike other filmmakers often identified as auteurs, Linklater’s distinction is not found on the surface of his films, in a visual style or signature shot, but rather in their DNA, as an ongoing conversation with cinema, which is to say, a conversation about time passing» scrive kogonada nel breve pezzo che accompagna il corto creato per la rivista «Sight & Sound». Il tema della sua ricerca è, come da titolo, il Tempo nei film di Richard Linklater, che è un fattore chiave sia all’interno delle singole opere sia in una visione d’insieme del suo lavoro. La tesi che inoltre dimostra kogonada è che la riflessione sul Tempo si giustappone a un insieme ancora più ampio della sola filmografia di Linklater, che è la filmografia tout court – una tradizione filmica che, guardata nel suo insieme, è essa stessa discorso sullo scorrere del tempo.
In Linklater // On Cinema and Time si sente il regista parlare di percezione. Rivediamo i suoi personaggi parlare di ricordi, passato, futuro, sogni, cosa è il presente, cosa vuol dire esserci in questo momento, quanto la presenza umana sia immanente e permanente o quanto, al contrario, sia solo un dettaglio di cui dovremmo rimettere in prospettiva l’importanza. È quanto mai vero che le idee di Linklater filtrano nelle sue sceneggiature (e nella costruzione tutta dei suoi film): «Like sunlight, sunset, we appear, we disappear», dice infatti, ad esempio, Natalia in Before Midnight. «We are so important to some, but we are just passing through».
L’analisi interna della poetica di Linklater è avvicinata a film che hanno fatto la storia del cinema. Truffaut, e poi De Sica, Kiarostami, Ozu, Welles, Godard, Lang, Hitchcock, Bergman, Fellini, Allen e Dreyer: kogonada monta insieme brevi e tra loro simili momenti di film indimenticabili per ricrearne la percezione d’insieme, come se fossero tutti espressione della stessa cosa, tutti, inevitabilmente, legati dal filo del tempo che scorre. Parlando proprio di Truffaut, dice che i film che seguono la vita di Antoine Doinel sono intrinsecamente legati al cambiamento del corpo di Jean-Pierre Léaud, tanto che «We are not only witnessing the story of an abandoned boy struggling to become an adult, but time itself». In piccolo, d’altra parte, è ciò che Linklater sperimenta al massimo grado in Boyhood (2014), il film girato nell’arco di 12 anni dove il Tempo è una variabile chiave e, mi viene da dire, quasi un personaggio vero e proprio che interagisce con le vite dei protagonisti.
Su questo rapporto tra Cinema e Tempo si innesta la triangolazione del titolo, grazie a cui kogonada individua in Linklater l’autore principe del Cinema inteso come arte del tempo che scorre. L’oggetto-film è l’apoteosi della riproducibilità tecnica che riesce a fissare gli istanti nel loro divenire. Il tempo passa, ma il film resta uguale a se stesso. I film cambiano, ma da soli restano identici a loro stessi. Gli attori crescono, ingrassano, dimagriscono, invecchiano di film in film – ma restano sempre loro. «Can you believe it was nine years ago that we were walking around in Vienna?» «Nine years—no, that’s impossibile.» «I know, feels like two months ago to me but it was summer ‘94.» «Do I look any different?» dicono Jesse e Céline in Before Sunset, e kogonada monta sul dialogo del 2003 i loro volti del 1994, scolpiti dal tempo che è passato, eppure sempre, nei dettagli, uguali a loro stessi. L’idea di fondo è la messa in dialogo di due piani temporali diversi, che esistono come singole unità ma che coesistono allo stesso tempo (!) in un singolo momento.
Cos’è, allora, il Tempo? Una variabile dell’esistenza? Una variabile del cinema? È modellabile? Se è modellabile, è reale? Linklater, dice kogonada, su queste domande riflette in maniera fondante, tanto che poi il suo essere autore non sta nell’avere un certo stile formale, nell’avere il signature shot come quello tarantiniano dal basso, quanto nel contenuto profondo dei suoi film, nel DNA. La metafora scientifica la trovo particolarmente congeniale perché rende efficacemente quel legame estetico di contenuto-forma che è tanto caro alla critica cinematografica. Il codice genetico di Linklater, sta dicendo kogonada, è tanto legato al discorso del Tempo (che è a sua volta tanto legato al discorso del Cinema), che il suo fenotipo lo riflette necessariamente. Il contenuto si esprime necessariamente attraverso la forma: quella scelta di inquadratura, di luce, di montaggio serve sempre (sempre sempre sempre) a parlare di Tempo.
Questa relazione è anche la base dell’idea di Cinema come settima arte, e cioè di arte che unisce in sintesi l’estensione dello Spazio e la dimensione del Tempo, secondo la definizione fissata nel manifesto del 1921 di Ricciotto Canudo. Quindi, mi viene da dire, in Before Sunset la ricerca si sposta anche a un piano metacinematografico, nella misura in cui il film diventa una massima espressione della riflessione sul cinema e sul lavoro di finzione. Ma ci arriviamo.
Girato in 15 giorni a Parigi esclusivamente durante la golden hour per la durata minimal di 80’ in cui, manco fosse un thriller, tempo della storia e tempo del racconto coincidono, Before Sunset (Prima del tramonto in italiano) di Richard Linklater esce nel 2004, nove anni dopo l’acclamato Before Sunrise (Prima dell’alba in italiano). Il primo film del 1995, raccontava la storia della francese Céline e dell’americano Jesse (Julie Delpy e Ethan Hawke): i due si conoscono su un treno, chiacchierano, arrivano a Vienna e lui deve scendere, mentre lei deve proseguire verso Parigi. Ma Jesse, in un momento di follia, chiede a Céline di scendere anche lei, passare la notte insieme a Vienna e rientrare verso Parigi il giorno dopo. «Think of this as time travel»: pensati libera da grande, da vecchia, pensati ripensare alla tua giovinezza, questo è un rimpianto che puoi non avere. Lei accetta, i due continuano a chiacchierare per la città, il romanticismo si spreca, la mattina dopo al binario si salutano e si promettono di rivedersi dopo sei mesi. Il finale è l’alba, l’inizio del giorno successivo: poi, que serà, serà. I personaggi avevano delle vite prima del breve lasso di tempo in cui li abbiamo visti agire nel film, e avrebbero avuto delle vite ben oltre lo scorrere dei titoli di coda – vite che non ci sarebbero interessate.
Eppure, dato proprio il finale aperto, la domanda sorgeva in ogni caso spontanea. Si rivedranno? Non si rivedranno?1 Linklater, Delpy e Hawke non hanno mai dato per certo la possibilità di tornare a esplorare le vite di Céline e Jesse, però hanno successivamente rivelato2 che ci pensavano, ci speravano. Delpy, ad esempio, soleva rispondere: «Having this ending with them leaving each other felt like something was missing in our lives, in a weird way, some place missing inside of us». Quando è arrivata la possibilità di lavorare a un sequel, non hanno esitato un secondo prima di dire sì, okay, ci stiamo. Sì, okay, questi due hanno altro da dire e noi vogliamo assolutamente farglielo dire.
Nel 2004 arriva quindi Before Sunset, scritto a sei mani da Linklater, Delpy e Hawke (la co-sceneggiatrice di Before Sunrise, Kim Krizan, ha collaborato in questo caso alla scrittura del soggetto) e pregno di una partecipazione emotiva senza precedenti negli altri lavori dei due attori – riversatasi anche nel loro approccio alla performance, che è una vera e propria masterclass di recitazione, come non poche recensioni hanno fatto notare3. David T. Johnson offre una rapida panoramica di quella che è stata la ricezione anglofona immediatamente a seguito dell’uscita, nel luglio del 2004: «Philadelphia Inquirer» titola Romantics Win: Sunset Follows Sunrise, «Montreal’s Gazette» ammicca con Be Seduced by a Sunny Afternoon in Paris, «London’s Sunday Telegraph» sceglie Love That Goes with the Flow, «Bath Chronicle» spinge verso A Love Story to Send You into Swoons of Giddy Delight e «Toronto Star» ripiega su Minds That Make Out. La critica è stata uniforme nell’acclamare il successo dell’indie già presentato alla Berlinale dello stesso anno, applaudendo la scommessa riuscita del sequel. Su «Sight & Sound» si scriveva che Before Sunset è «the kind of pure cinema the likes of Eric Rohmer and Jacques Rivette have constantly striven for, and which Delpy, Hawke and Linklater and his team have achieved to a fine degree».
Sulla menzione di Rivette vorrei soffermarmi un secondo di più: porta infatti alla mente la Lettera su Rossellini a firma del critico e regista, in cui si difende Viaggio in Italia (1954) solo sul piano della messa in scena4. Escluso che nove anni dopo la recensione su «Sight & Sound» Linklater citerà proprio Viaggio in Italia in Before Midnight – parlare Rivette vuol dire parlare di mise en scène. La politica degli autori dei «Cahiers du Cinéma» vede nel concetto di messa in scena una delle tracce chiave per identificare lo stile di un autore nel film. Si definisce messa in scena la costruzione formale dell’immagine – quel fenotipo del DNA di cui si diceva all’inizio. Jacques Rivette stesso la articola come una «registrazione di corpi in relazione tra loro in uno spazio»5, e per lui è tanto centrale che sul valore morale della messa in scena basa tutta la sua famosa invettiva contro Kapò di Pontecorvo.
La messa in scena di Before Sunset come registrazione di corpi in relazione tra loro in uno spazio è fondamentale per lo spazio diegetico, cioè interno alla narrazione. Céline e Jesse, che in Before Sunrise sono ubriachi dell’infatuazione impossibile e sognatrice del tempo fuori dal Tempo che stanno trascorrendo insieme, in Before Sunset stentano a sfiorarsi. Scrive Suzanne Scott che il «film itself is formally constructed to haunt, touches never quite reaching their intended target for fear of realization that the other is nothing more than spectral memory […]. Before Sunset lingers […]». E infatti Céline e Jesse si salutano all’inizio ma poi camminano vicini senza mai toccarsi, i gesti di chiusura dello spazio che li separa cadono nel vuoto – come la mano di Céline che si muove per accarezzare la nuca di Jesse ma non arriva mai a destinazione. Sono solo due i momenti in cui si toccano davvero: il primo nel parco, mentre scherzano di sesso e Jesse afferra Céline per sedersela in braccio su una panchina. Breve, imbarazzante, fuori luogo. Ridacchiano, lui si scusa, lei si scansa, tutto torna come prima. Il secondo nel cortile della casa di Céline, quando devono salutarsi di nuovo scesi dalla macchina. Lei lo avvisa, «I want to try something», si avvicina e lo abbraccia: «I want to see if you stay together or if you dissolve into molecules». Jesse è scioccato, non sa che dire, non sa che fare. «How am I doing?», dice, incredulo. «Still here». «Good, I like being here». Nessuno ride, perché non c’è niente da ridere. Lei lo lascia andare, sorridono, sanno che niente può tornare come prima perché “prima” non esiste.
Questo abbraccio finale è l’affermazione netta e chiara della presenza del soggetto nello Spazio, che si definisce nel rapporto con l’altro nel momento in cui la presenza è riconosciuta, sottolineata, affermata. Scrive infatti Celestino Deleyto sull’uso dello Spazio nella Before Trilogy: «Given the conceit of two characters walking and talking under the intense scrutiny of the camera, the space around and beyond them could have receded into invisibility and irrelevance, yet Linklater often suggests otherwise. Most apparent are the two montage sequences, at the end of Before Sunrise and the beginning of Before Sunset, of the places visited by the characters, once they have become separated in the first film, and before they get together again in the second. […] this is a direct warning to spectators not to ignore the centrality of space in the trilogy, a warning that is spelled out in Before Sunrise when Céline describes the painting by Georges Seurat “La voie ferrée” as a world in which the environment is stronger than the people, humans appearing to dissolve into space in his paintings». Lo Spazio è un backdrop cruciale che sembra sparire, ma che in realtà incombe sull’immanenza dei protagonisti, sulla loro stessa esistenza nella realtà. Si delineano con pochissimo delle questioni fondamentali a cui potrei dedicare un’altro intero saggio, che possiamo riassumere di nuovo con Natalia: siamo così importanti per alcuni, ma in realtà siamo solo di passaggio.
Se quindi diegeticamente la messa in scena di rivettiana memoria serve a giocare sull’equilibrio intimista della relazione tra Céline e Jesse, la messa in scena extra-diegetica, quindi quella definibile come costruzione formale dell’immagine, lavora esattamente per restituire l’urgenza del racconto e la contingenza del tempo che, inesorabilmente, passa.
Tutti i recensori del 2004 lodano la notevole regia che lavora nascondendosi per raggiungere una massima illusione di spontaneità. La complessità era tutta nelle stringenti esigenze di produzione: «Not only did we have just 15 days to shoot, but on any given day, we only had four hours,» racconta Linklater. «It was important that the Steadicam moves not draw attention to themselves or to the performances. The point was to not draw attention to anything». La costruzione dell’immagine è universalmente applaudita: Roger Erbert, per esempio, scrive che «“Before Sunset” is a remarkable achievement in several ways, most obviously in its technical skill. It is not easy to shoot a take that is six or seven minutes long, not easy for actors to walk through a real city while dealing with dialogue that has been scripted but must sound natural and spontaneous. Yet we accept, almost at once, that this conversation is really happening. There’s no sense of contrivance or technical difficulty».
Andrew Sarris definisce i movimenti di macchina «long» e «lyrical», e prosegue: «Along the way, Mr. Linklater performs prodigies of invention with the time and space coordinates of the mise en scène. His is the subtlest form of filmmaking, which is to say it’s made to look and sound effortlessly minimal. Yet it is also marvelously fragile–as if at any moment the sheer improbability of the situation is going to blow up in our faces with a disillusioning blast of common sense».
Pure nel poco spazio (!!) a disposizione, la brevissima recensione di Glenn Kenny sul magazine «Premiere» non manca di menzionare che «Linklater has his camera almost literally just walk and sit with them as an increasingly intense conversation unfolds», e anche Stephanie Zacharek nota che «As Celine and Jesse wander and talk, the camera lingers on their faces for seven or eight minutes at a time, as if it can’t bear to tear itself away from their conversation, or, more specifically, from their presence itself».
L’immagine si lega alla narrazione raggiungendo un equilibrio quasi miracoloso in cui ogni scelta formale serve ad amplificare la posizione dei personaggi – l’uno rispetto all’altro, entrambi rispetto agli spazi che attraversano, entrambi rispetto al tempo che scorre inesorabile. La loro presenza è il cuore pulsante del film, eppure devono muoversi lungo una strada che ha una distanza ben definita, e quindi il loro dialogo deve durare esattamente da X a Y. La macchina li segue con raccordi precisissimi che non buttano neanche un secondo, niente si taglia perché sta tutto succedendo in quel momento e quindi è importante anche Jesse che decide quanto lasciare di mancia. Come scrive Chris Fujiwara, «The intelligence of the film is in its mise-en-scène: the articulation of looks, the shot choices, the cutting. […] To say this is not merely to state the obvious but to identify the main will of the film: to show the two not only talking but watching and listening to each other, reacting, anticipating, hesitating as they decide how much to disclose and how to do it. Linklater’s style enhances the nuances of the dialogue while making it clear that more is going on in and between these two than what’s being said».
J. Hoberman amplia scrivendo che «with stars Hawke and Delpy working on the script, it’s boldly self-reflexive. […] the extraordinary thing is not just the quality of their conversation but the way Linklater stages it—a series of long, flashback-punctuated tracking shots in which the camera simultaneously draws the couple through the streets of Paris and back into their respective pasts […]. Their dialogue—on the nature of coincidence and memory, getting older and being in the moment, intimations of mortality and the possibility of personal change—is both the subject of the movie and a commentary on it. For now, these stars personify the passage of time […]». Il modo in cui Linklater «stages», letteralmente mette in scena la storia, serve a mettere in dialogo due diversi piani temporali, quello del passato, Vienna, e quello del presente, Parigi. Il modo in cui i due protagonisti sono mossi sulla scena e il modo in cui la loro relazione è inquadrata serve a far echeggiare la notte del 1994 nella giornata del 2003. Il lavoro formale sfuma le linee di separazione per rappresentare solo il Tempo come entità dai contorni poco precisi: sembra, da quello che dice Linklater e da come lo dice, che un modo per farci i conti sia sublimarlo in una costruzione di finzione, che mette in dialogo realtà e fantasia.
In effetti, il pretesto del film sta nel firmacopie di Jesse a Parigi: scopriamo all’inizio del film che ha scritto un libro sulla notte di Vienna, This Time (!!!), e scopriremo alla fine che anche Céline, perseguitata dal ricordo, ci ha fatto i conti trasformandolo in una canzone. E d’altra parte, su un piano extra-diegetico, cosa fa Linklater se non lavorare sull’autobiografismo per creare la finzione? Lo stesso Before Sunset è così consapevole di se stesso da iniziare con un dibattito tra autore e critici, da indirizzare direttamente le domande che attanagliavano l’intero pubblico dopo la fine di Before Sunrise, da parlare del grado di autobiografia che c’è nella finzione, da dire che scoprire la verità «would take the piss out of the whole thing».
Già in un’intervista per L.A. Weekly pubblicata in occasione dell’uscita di Before Sunset, Linklater ribadiva che «Julie and Ethan and I had talked about a sequel a lot over the years, […] but it’s scary, the thought of going back in there. When we watched the first film again, all of us together, we were like, ‘Wow, we could not only screw up this film [Before Sunset], but if we really fuck it up, we’re fucking up that film». La Storia, si dice, si fa e si capisce a fatti conclusi, e la narratività si scrive retroattivamente. Lo dicono anche Céline e Jesse mentre passeggiano per le rue parigine: forse un ricordo non è mai concluso finché non moriamo. Costruiamo e ci costruiamo in continuazione: Before Sunset potrebbe cambiare l’intera prospettiva che si ha su Before Sunrise, così come l’ancora successivo (sempre di nove anni) Before Midnight, ultimo quadro della trilogia, può fare lo stesso sui suoi predecessori. «Before Sunset is construction», scrive Rob Stone. È costruzione, è illusione, è performance6. È una riflessione, metacinematografica per via della tecnica, sul Cinema stesso.
Nel saggio Time Regained per la Criterion Collection, Dennis Lim analizza i film della trilogia con uno sguardo d’insieme per indagare come la questione del Tempo si evolva nel giro dei vent’anni in cui si snoda la storia di Jesse e Céline: «The shifting meaning of a moment—as it is anticipated and then experienced, as it is remembered or misremembered, as it gains or loses luster in a year, a decade, or more—is the existential question that animates the story of Jesse and Céline». Su Before Sunset, nello specifico, continua così: «in cinema and in life, time has a way of folding in on itself. […] More than most filmmakers, Linklater takes quite literally Andrei Tarkovsky’s concept of cinema as sculpting in time; he has even likened the Before films to a sculpture, with time as the force that shapes it». Attraverso la riflessione e la ricerca sul Tempo, Linklater guarda alla Cinema e alla vita – o meglio, alla percezione filtrata dal soggetto della vita. Questo Tempo esiste davvero? È definito? Sembra di no, da tutto quello che abbiamo detto finora, e infatti Jesse apre proprio su questa battuta. «Time is a lie», dice quando il suo sguardo si posa – per la prima volta dopo nove anni – sul volto un po’ invecchiato di Céline. «It’s all happening at the same time».
A. O. Scott in questa battuta trova esattamente la chiave di scatto autoriflessivo di Before Sunset, che «unfolding with deceptive languor in real time, at once supports this idea [che il tempo è una menzogna] and undermines it». Il Tempo è falso, nella testa di Jesse i due momenti esistono contemporaneamente. Ma è anche vero, perché Céline, lì davanti a lui, è cambiata, lui è cambiato, il Tempo è passato. Il Tempo, sostiene Marjorie Baumgarten, «is neither the enemy nor a friend, it is instead the X-factor in their lives, the stream through which they travel. Linklater teases, tricks, and revels in time’s resoluteness and its contours as he films Celine and Jesse with long, absorbing camera takes that provide the illusion of events happening in real time while always keeping us cognizant of its passing».
Il Tempo è una bugia perché nella nostra testa, dove viviamo di ricordi e di aspettative, si ripiega su se stesso: lo fa nella vita e lo fa nel Cinema, ed ecco che si torna a kogonada, a Linklater come punto d’unione tra il Cinema e il Tempo, variabile chiave dell’esistenza. Se è vero che un regista fa il regista perché quello che ha da dire non sa dirlo con la musica, con la pittura, con le parole, ma sa dirlo solo con le immagini in movimento (cito Linklater: «I had a visual thing, I could see films in my head, and cinema is really my calling»), ecco che Linklater veramente è autore principe della settima arte perché usa il Cinema come mezzo per mostrare il processo di riflessione su questioni essenziali e genetiche dell’esistenza, che diventano essenziali e genetiche anche del Cinema.
Before Sunset, per arrivare a concludere, non è uno di quei film che si possono definire “il Cinema” (“Cos’è per te Cinema?” “Per me La chimera di Alice Rohrwacher è Cinema”. “Per me invece è la canzone di Francesca Michielin con Samuel dei Subsonica”), ma è sicuramente una massima riflessione su cosa è il Cinema: una negoziazione continua tra realtà e fantasia che si può sublimare nel lavoro di creazione di finzione, che a sua volta diventa una sorta di movimento terapeutico per fare i conti con la necessità di capire la realtà del mondo. Scrive sempre Rob Stone che «Confusing the real and the unreal […] can also be a deliberate ploy aimed at questioning the nature of being and the world. […] Within the field of metaphysical inquiry, the key question for characters in Linklater’s cinema appears to be whether the world exists outside the mind».
«Real time,» continua Lim, riprendendo tutti i fili del discorso che abbiamo delineato e intrecciandoli insieme, «gives [Before Sunset] its formal rigor and dramatic urgency. With hardly a minute to waste, Jesse and Celine are no longer pausing to take in the sights or to engage with bystanders […]. Taking in a single sustained conversation—intricately plotted and mapped, and captured with a discreetly fluid Steadicam in the walk-and-talk scenes—Before Sunset illustrates better than any other Linklater film his gift for creating the illusion of spontaneity. Memory is the very substance of this film. The characters are constantly reliving, perhaps rewriting, their previous meeting, and as Before Sunset replays the past, it also gives it a new context. The future regret that Jesse playfully warned Celine about when they met has become their very real present. Vienna haunts them both, so much so that Jesse turned it into fiction and Celine, we later learn, into a song».
In Before Sunset la vita è seme autobiografico da sublimare dentro una storia, che a sua volta, in questo caso, è veicolo esorcizzatore di rimorso e frustrazione. La riflessione è diegetica ed extradiegetica, interna al racconto e sviluppata nelle modalità di creazione del Tempo e dello Spazio del film. L’inganno della fiction, il trucco dell’immaginazione diventa uno strumento per leggere la realtà: Before Sunset è film sul cinema che a sua volta dice che Cinema è la vita fatta film. È la vita – mai completamente immanente – resa fissa attraverso uno strumento che lavora esclusivamente per giochi di prestigio. È la realtà che si fa fantasia, ed è la fantasia che trasforma la percezione della realtà.
E per chiudere davvero, faccio un ultimissimo passo in avanti seguendo il pensiero di Lim, che, parlando questa volta di Before Midnight, conclude così la sua analisi della trilogia: «While it’s a truism to say that love fades, Before Midnight has a more complicated view, consistent with the other movies, that love is an ongoing negotiation between fantasy and reality».
L’amore è una negoziazione continua tra la fantasia e la realtà. E se Cinema, abbiamo detto, come dimostra Before Sunset è la vita fatta film, riesumiamo Aristotele per fare un semplice sillogismo che porta a casa una conclusione tanto banale per Linklater quanto rivoluzionaria per la sottoscritta: Cinema è la negoziazione tra la vita (la realtà) e la costruzione di finzione (la fantasia), e se questa negoziazione è, come sostiene Lim, il nocciolo dell’Amore, che è anche Cinema, allora per Linklater Cinema è Amore e Amore è Cinema.
Dennis Lim scrive: «The open ending of Before Sunrise existed for years as a Rorschach test, separating romantics from cynics and fueling countless post-movie discussions about the fate of Jesse and Celine, who came to attain the status of characters with a life outside their fiction». Il punto non sta tanto nella storia, quanto nell’effetto della storia. Nel fatto, ad esempio, che persino Robin Wood nel suo testo Sexual Politics and Narrative Film: Hollywood and Beyond (Columbia University Press, New York 1998, pp. 322-324) dedichi un capitolo intero al lavoro che il film fa sulla rappresentazione dell’amore e insista per diversi paragrafi su che cosa sarebbe potuto succedere ai due protagonisti dopo che lo schermo è diventato nero – «an uncharacteristic bit of speculation in a scholarly piece». Tra parentesi – Wood ci azzecca. E la cosa ancora più assurda è che, in tempi ancora non sospetti, Linklater risponde al suo saggio con una lettera scrivendo che «neither he nor the two actors ever doubted that the date would be kept, and they have even met to discuss the possibility of a sequel, “Six Months Later...” But “Never trust the artist(s)—trust the tale”!» E infatti.
Come nel documentario Richard Linklater: Dream is Destiny di Louis Black, 2016.
Segnalo, oltre ai commenti sulla recitazione che si troveranno nelle recensioni citate in seguito: https://www.salon.com/2004/07/02/before_sunset/, https://chicagoreader.com/film/spur-of-the-moment/,https://www.theguardian.com/theobserver/2004/jul/25/features.review37, http://reverseshot.org/symposiums/entry/13/4_sunset.
C. Bisoni, La critica cinematografica. Un’introduzione, Archetipolibri, Bologna 2013, p. 21.
Ivi, p. 20.