Quarantena esistenziale: “Palm Springs” di Max Barbakow
Palm Springs è una romcom esistenziale girata ad accidentale metafora del mondo in quarantena per il pubblico che vede il film poco dopo l’avvio della Fase 2.
La mia professoressa di Critica cinematografica ha fatto l’errore madornale di lasciarci completamente liberi nell’individuazione dei film da portare all’esame con recensione e ricezione critica. “Uno di cui abbiamo parlato?” “Quello che volete.” “Lo stesso per recensione e ricezione?” “Quello che volete.” “Recente?” “Quello che volete.” “Italiano?” “Quello che volete.”
Anzi, una cosa l’ha detta. E cioè che è molto divertente scrivere stroncature, ma che è più difficile parlare delle cose che ci sono piaciute. Che probabilmente è molto vero, dato che le mie bozze sono piene di pezzi già lunghissimi solo scritti a metà su film che ho adorato e di cui vorrei parlare rendendogli buona giustizia. Ma l’esame si avvicinava e io non avevo ancora deciso su cosa buttarmi, finché un giorno, proprio a lezione, mentre lei dice “La forza del pezzo che stiamo leggendo sta in una singola idea interpretativa,” mi ricordo immediatamente di un altro giorno, nel luglio 2020, quando finalmente guardo un film che aspettavo da una vita e mi sento colpita in fronte perché sembrava, per pura coincidenza devastante del caso, star parlando esattamente di me, di noi, del mondo come avevamo appena finito di conoscerlo: Palm Springs (Max Barbakow, 2020).
Già quattro anni fa avevo cercato di mettere da parte la mia personale follia nei confronti di Andy Samberg, della filosofia pop e dei pizza floatie per parlare di Palm Springs come una persona che aveva effettivamente qualcosa di serio da dire. Oggi mi sono detta, ma perché no: riprendiamo questa idea (Palm Springs è una romcom esistenziale girata ad accidentale metafora del mondo in quarantena per il pubblico che vede il film poco dopo l’avvio della Fase 2). Ripresentiamola. Vediamo se ci credo ancora. Vediamo se lo posso dire meglio e nella metà delle battute – tassative 3000 e poco più, spazi inclusi. Gli ermetici credevano fermamente che less is more: magari avevano pure ragione.
È venuto fuori che per questa idea andrei ancora in guerra, e che Palm Springs è sempre un film straordinario da vedere quando tutto sembra tremendo e non si sa dove andare a sbattere per trovare un po’ di gioia nella vita. Condivido il pezzo revisionato all’esame perché sharing is caring!
P.S. Andy ti amo.
È successa una cosa, tra la presentazione al Sundance Film Festival del 2020 di Palm Springs e la sua uscita in streaming nel luglio dello stesso anno: la quarantena da Covid-19. A gennaio, in tempi non sospetti, Palm Springs è stato preso per quello che era: una romcom leggera che faceva leva sul divismo da piccolo schermo di Andy Samberg (Brooklyn Nine-Nine) e Cristin Milioti (How I Met Your Mother). Il giochino del loop temporale strizzava l’occhio a Groundhog Day, i protagonisti insieme erano una gioia per gli occhi, le risate erano assicurate e la dolcezza infiocchettata. Insomma, il perfetto successo dell’estate.
Poi questa estate arriva, e porta con sé il retaggio dei mesi di chiusura cui siamo stati obbligati. L’estate arriva, ma i cinema non riaprono: l’uscita in sala slitta a data da destinarsi, poi passa a una piattaforma, e di off-streaming internazionale si parlerà solo verso ottobre. L’estate arriva, e prevede una stagione di ombrelloni distanziati e mascherine di tutti i colori, di spiagge popolate da persone sempre uguali a loro stesse, ma un po’ più paranoiche del solito. L’estate arriva e con lei arriva Palm Springs; e Palm Springs è sempre uguale a se stesso, ma il suo equilibrio disincantato tra nichilismo e karma è un po’ più paranoico del solito. Meglio: lo guardiamo, e ci sembra più paranoico. Cambiati inevitabilmente dal trauma collettivo, guardiamo il twist fantascientifico e ci sembra diventare metaforico: le giornate si ripetono identiche a loro stesse, ieri è come domani che è come oggi che è come l’altroieri che è come dopodomani, e non c’è via d’uscita. Suona familiare?
L’opera prima di Max Barbakow mette in scena la spigliata sceneggiatura di Andy Siara, nata due anni prima che potesse anche solo esistere l’idea di una pandemia come è stata quella da Coronavirus. La costruzione narrativa poggia su un già noto disagio esistenziale tuffandosi a capofitto nell’introspezione relazionale per delineare il rapporto di Nyles (Samberg) e Sarah (Milioti), che passano da un generico disinteresse per la vita a un interesse che è reciproco prima, per l’esistenza poi. La trascuratezza emotiva di un nichilismo crescente – che da Nietzsche echeggia anche l’eterno ritorno – è esplosa nei mesi di chiusura, e le sue implicazioni catastrofiche hanno preso vita: le istituzioni crollano, la realtà non è mai stabile, nel giro di una notte passato e futuro diventano un piatto presente che, se raccontato senza toni comici, è un unico, lunghissimo incubo.
A cosa appigliarsi, allora? Siara offre una teoria: a un’altra persona. Qualcuno che entra nella nostra vita e ci chiede di confrontarci con il passato e misurarci con il futuro. Tocca rompere il guscio, accettare una dose di co-dipendenza e prendere consapevolezza che c’è bisogno degli altri per sopravvivere. Tocca entrare nella caverna fantascientifica ricoperti di esplosivi per attraversare il wormhole dell’esistenza, senza sapere se si apriranno di nuovo gli occhi. È un atto di coraggio, che poi è una storia vecchia e sempre uguale a se stessa. Forse, oggi, un po’ più paranoica.